Incontriamo a Milano il drammaturgo inglese, reduce dallo straordinario successo nel West End della sua versione di Vanya, riscritto come one man show per Andrew Scott.
Siamo nel foyer della Fabbrica dell’Esperienza di Milano, al termine del debutto italiano di Bluebird, la prima produzione professionale di Simon Stephens, realizzata al Royal Court Theatre di Londra nel 1998, che ha segnato il punto iniziale della sua lunga carriera di drammaturgo.
Bluebird è stata per la prima volta tradotta in un’altra lingua e messa in scena dalla compagnia Lyra Teatro di Milano, con cui negli anni si è sviluppata una felice collaborazione. La pièce si svolge tutta a bordo del taxi di Jimmy, e offre uno sguardo intimo su una serie di personaggi che si confidano con lui, cercando di trovare un senso nella loro esistenza mentre viaggiano attraverso la notte londinese.
D’altro canto, anche il protagonista nasconde una grande sofferenza per qualcosa accaduto cinque anni prima, un evento traumatico con il quale cerca di venire a patti proprio in questa pazza notte.
Come è nato il rapporto tra Simon Stephens e Lyra Teatro?
Dal 2018 vengo ogni anno a Milano ospite della Compagnia, per dei seminari di drammaturgia molto partecipati, a cui vengono autori da tutta l’Europa e a volte anche oltre. Lo scorso anno mi hanno chiesto di poter tradurre Bluebird e ho detto sì. Conosco Lyra Teatro da sette anni oramai, e ho sempre avuto la sensazione che facessero le cose come si deve. Questa però è la prima loro produzione che vedo, ed è bello sentire confermata la mia sensazione, perché il livello di verità, recitazione, dettaglio, è straordinario, e anche la regia è davvero molto bella.
Che sensazioni hai provato vedendo lo spettacolo?
E’ stato come vedere una foto di me stesso di ventisei anni fa. Quello strano miscuglio di emozioni che si prova guardando delle foto di se stessi da giovani e si pensa “Perché diavolo avevo quella t-shirt?” ma anche “Caspita, ero così giovane, e i miei capelli erano davvero fantastici!”.
Quando l’ho scritto avevo ventisei anni, facevo il barista, venivo da Manchester, vivevo a Londra e volevo con tutto me stesso fare il drammaturgo. Una delle cose migliori che si possano fare se si vuole scrivere è trovare lavoro in un bar, perché sei l’unico sobrio in una stanza piena di ubriachi. Ogni notte lavoravo e vedevo le persone diventare sempre più ubriache e quindi divertenti, ridicole, vulnerabili. In questa vulnerabilità e stupidità diventavano una metafora dell’intera città.
Ci puoi raccontare come è nata la trama?
Il manager del bar aveva deciso che se lavoravamo dopo la mezzanotte potevamo prendere un taxi gratis per tornare a casa, e per una persona squattrinata come ero io, passavo davvero un tempo in taxi in quel periodo. La figura del tassista di una grande città ha cominciato ad affascinarmi, ho iniziato a vederlo come una specie di Caronte sullo Stige, un traghettatore di anime che può condurle all’inferno o al paradiso. Inoltre avevo in mente uno specifico gruppo di attori, con cui avevo messo in scena la mia opera precedente. Ho scritto una scena per ognuno di loro. Mia moglie era incinta all’epoca, era il nostro primo figlio, così ho scritto della cosa che mi terrorizzava di più in assoluto, la perdita di un figlio.
Sei anche stato ispirato da opere teatrali?
Non avendo tanti soldi non andavo molto a teatro all’epoca, invece ci sono sicuramente quattro film che mi hanno ispirato: “Paris, Texas” di Wim Wenders, scritto da Sam Shepard, “Naked” di Mike Leigh, “Night on Earth” di Jim Jarmush e “Taxi Driver” di Scorsese.
Tu non scrivi per cinema o tv, ma esclusivamente per il teatro. Come mai, ritieni il teatro uno strumento di comunicazione più efficace?
Perché spinge lo spettatore ad usare la sua immaginazione. Non so in Italia, ma in UK c’è una vera tendenza al momento per il teatro high-tech, che usa i video, la musica, le luci, a volte attori-celebrità che vengono dalla televisione. Penso che questo significhi non cogliere il punto del senso del teatro. Se c’è qualcosa che la pandemia ci ha insegnato è che come gli esseri umani abbiamo bisogno di momenti di aggregazione tra estranei.
Quando avevo nove o dieci anni, ho deciso che non credevo in due cose: in Dio e nei fantasmi. Non credo che Dio e i fantasmi esistano, ma credo che il teatro come forma d’arte sia costruita sulla sacralità e sui fantasmi. Produzioni come quella di stasera, in questo teatro, sono sacre e sono piene di fantasmi. Grazie alla possibilità di immaginazione condivisa che gli attori, la regia e il pubblico hanno portato in questo spazio, rimuovendo tutti gli orpelli, questa esperienza l’abbiamo fatta tutti insieme, con la nostra immaginazione.
Cos'è quindi il teatro per te...
Il teatro rimane l’unico luogo dove spegniamo il telefono e ci sediamo vicino a estranei, al buio, guardando nella stessa direzione e osservando altri esseri umani davanti a noi. Questo è straordinario, ed è per questo che continuerò a fare il drammaturgo fino a che avrò vita.